Rashōmon
Il film, il decimo di Kurosawa Akira, è
ambientato nel passato del Giappone,
forse in epoca chūsei
(XIII-XVII secolo). Un monaco e un taglialegna (l’attore Shimura
Takashi, uno dei preferiti del regista) si rifugiano sotto le rovine
di Rashōmon, la porta d’ingresso meridionale della città di
Kyōto,
già all’epoca in rovina, e qui parlano del
processo in cui sono stati testimoni. Il
taglialegna inizia così a raccontare a un viandante anche lui sotto
la porta per sfuggire alle intemperie: un famoso bandito, catturato
per caso da una spia della polizia (e già qui le versioni della
cattura della spia e del bandito sono diverse), sul corso del fiume
Katsura, nella zona ovest di Kyoto, è accusato dell'omocidio di un
samurai in un bosco vicino la città. Al processo a deporre ci sarà
la spia che ha catturato il bandito, il taglialegna che descrive il
modo in cui ha trovato il cadavere, il monaco che spiega il suo
incontro con la coppia, e i tre, con le loro personali versioni: il
bandito, la donna del samurai che viene posseduta dal bandito, forse
stuprata, e il samurai ucciso (tramite la trance di una inquietante
sciamana, una miko, in una delle scene più belle del film). Esse
risultano essere tutte e tre profondamente differenti, e,
paradossalmente, tutte tese ad attribuirsi la colpa della morte del
samurai e a sminuire il ruolo degli altri (per inciso, anche l'anima
del defunto mente, tesa com'è a costruire un ruolo di primo piano
per sé, anche se ormai morto). L'interrogatorio è geniale: non
vediamo chi interroga, né sentiamo le domande, perché
nell'intenzione del regista è lo spettatore a interrogare (ma gli
attori non fisseranno mai la telecamera). Da notare anche la
particolare disposizione dei personaggi sullo sfondo. La verità non
sarà svelata, e anche il nuovo racconto del taglialegna, che
descrive una storia molto meno eroica di quella raccontata dai tre,
non è molto convincente, sembra anzi un semplice riassunto delle
versioni precedenti. La visione pessimistica dei rapporti tra le
persone, tutti tesi alla propria esaltazione, è mitigata dalla bontà
disinteressata del taglialegna che prenderà con sé un bambino
abbandonato nei pressi della porta, dopo aver litigato con l'uomo che
era con lui che senza alcuna remora, toglie le vesti preziose e
l'amuleto di protezione del bambino.
Rashōmon
è un film sulla natura umana, ma anche sull'impossibilità di
trovare la verità, una posizione nichilista che per questo motivo
non trova via d'uscita, avvicinando l'opera alle idee di Pirandello.
Per la tematica, e per il modo in cui viene affrontata, è da
considerare un classico del cinema, che trascende epoche e luoghi per
affrontare, con raffinatezza, la problematica della verità
sfuggevole e della malvagità dell'uomo.
Uscì
nelle sale giapponesi nel 1950, ma riscosse un immediato successo
solo all’estero, nel 1951, quando fu premiato al Festival di
Venezia con il Leone d'oro. Il film concorse grazie
all'interessamento di Giuliana Stramigioli, una pioniera degli studi
giapponesi in Italia, che convinse i mal disposti dirigenti della
casa di produzione Daiei
ad inviare il film (Kurosawa rimase all'oscuro di tutto, e seppe
dalla stampa della sua vittoria, in quanto non fu neppure invitato al
festival), convinti che l'opera non fosse meritevole di rappresentare
il cinema giapponese contemporaneo. Vinse, sempre nel 1951,
addirittura l'Oscar come miglior film straniero, lanciando il suo
regista verso la fama internazionale, e aprendo così le porte della
cinematografia giapponese al mondo. Come per diverse opere del
regista, fu accolto tiepidamente invece in patria, giungendo ad
essere solo al quinto posto nella classifica dei migliori film
dell'anno stilata dalla rivista Kinema Jumpo. Anche la casa di
produzione non fu mai entusiasta del progetto e fu realizzato solo
perché Kurosawa li convinse del basso budget, in realtà una mezza
verità da parte del regista che chiese per il film pochi attori e
solamente la costruzione della porta come set esterno, senza
specificare le dimensioni colossali della stessa: “sarebbe stato
meglio costruire 100 set, siamo stati giocati da Kurosawa”, si
disse alla Taiei, che comunque costruì la porta al risparmio, e per
questo la struttura fu così fragile da non permettere il
completamento del tetto, creando, involontariamente, lo splendido
effetto di distruzione.
Il
film è giustamente famoso per le tecniche all’epoca innovative di
ripresa (telecamera in mano che segue gli attori, e primo film in
assoluto in cui la telecamera viene puntata direttamente contro il
sole) e di illuminazione (utilizzo di specchi per ovviare alla
carenza di luce nelle scene nella foresta, che così appare
naturale), ma anche per la resa magistrale di una trama
apparentemente semplice e per questo insidiosa. È breve, circa 88
minuti, e fa un massiccio uso del flashback, in pratica le varie
versioni dei personaggi.
Grandissime
le prove degli attori principali: Mifune è bellissimo con i suoi
muscoli scattanti, e bravissimo nel ruolo del bandito selvaggio (le
movenze sono ispirate a quelle di un leone, dietro suggerimento di
Kurosawa, e studiate attraverso dei documentari) con la barba ispida.
Machiko Kyō,
la protagonista femminile, è notevole a passare dal ruolo di
vittima a quella di istigatrice alla morte, con un viso particolare
che riesce ad esprimere pura malvagità.
Per la
trama, Kurosawa utilizzò fondamentalmente il materiale presente nel
racconto di Akutagawa Ryūnosuke
“yabu no naka”, del 1922, ma il film prese il nome da un altro
racconto dello stesso autore, Rashōmon , appunto, del 1917,
rielaborazione di un racconto antico che si svolge nell’omonima
porta. La fusione tra i due racconti fu dovuta alla necessità del
regista di rimpinguare lo scarno materiale offerto da Yabu non naka,
arricchendolo con le suggestioni di Rashomon.
È
probabilmente uno dei film giapponesi che più ha lasciato
un'impronta nell'immaginario occidentale: ebbe un ottimo riscontro, e
diede vita a vari rifacimenti, tra cui uno erotico in Italia nel 1969
(quante volte...quella notte, di Bava), mentre servì come trama per
la bella canzone “le tre verità” di Mogol-Battisti. Anche in
altri paesi ebbe vasta eco, tanto che le sue citazioni
cinematografiche non si contano più, dal western del 1964,
“L'oltraggio” (decisamente inferiore all'originale), penetrando a fondo nella cultura popolare. È, per
esempio, del 1971, 20 anni dopo l'uscita in America (fine del
'51), un episodio animato della serie “The Jacksons 5ive”
intitolato “Rasho-Jackson”, dove i cinque fratelli raccontano lo
stesso fatto esaltando ognuno il proprio ruolo, finché un filmato
farà vedere che in realtà tutti hanno avuto lo stesso identico
comportamento. La sua influenza, nonostante gli anni, non si è esaurita, tanto che viene citato, in tempi più recenti, ma sono solo due esempi tra le decine possibili, nell'episodio 23 della serie X dei Simpsons (Margie: stiamo andando
in Giappone, a te piace Rashomon! Homer: non è quello che
ricordo...), mentre un episodio del 2006 della famosa serie CSI si
chiama “Rashomama”(in italiano “la freccia di Cupido”), dove
si ritrova il tema delle verità.
The Outrage
Quante volte
rashojackson
CSI
Le tre
verità
Il vero nome della porta è Raseimon , che
significa “la porta nelle mura di difesa”, mentre Rashōmon,
scritto con caratteri diversi, è una lettura successiva ma divenuta
più famosa, ed è quella usata nel film (ma i nomi alternativi sono
numerosi). Possiamo quindi dire che il cartello con il nome della
porta che viene inquadrato alla fine del film, contenente i caratteri
“nuovi” è un falso storico. Dopo un periodo di splendore, a
causa di diversi crolli dovuti alle intemperie, fu infine
abbandonata, divenendo un simbolo di decadenza. C'era l'usanza di
abbandonare i bambini indesiderati, mentre nel sottotetto venivano
portati i cadaveri senza nome. Nonostante nel film la porta sembri
essere nel mezzo del nulla, essa era il confine dell'antica città,
e, probabilmente, nei dintorni dovevano esserci qualche abitazione.
L'onore
in Giappone era molto importante, e i tentativi di suicidio nel film
sono assolutamente plausibili, anche se per uno spettatore
occidentale potrebbe sembrare esagerato.
L'abbandono
di bambini in tempi antichi non era un fatto eccezionale, anche il
famoso poeta Matsuo Bashō
ne parla nei suoi haiku.
Il
ruolo di medium con i morti era tradizionalmente affidato, nella
religione shintō,
alle sacerdotesse, miko.
La cinematografia chiama “effetto Rashomon” le
situazioni in cui ci sono più verità a confronto.
Bibliografia:
youtube (è possibile reperire molti spezzoni e persino una versione integrale sottotitolata)
wikipedia
(it-en-jp)
Aldo Tassone, “Akira Kurosawa”, Il castoro cinema, 2001 edizione speciale nel cofanetto de “I sette samurai” Mondo Home.