giovedì 17 novembre 2011

Rashōmon



Il film, il decimo di Kurosawa Akira, è ambientato nel passato del Giappone, forse in epoca chūsei (XIII-XVII secolo). Un monaco e un taglialegna (l’attore Shimura Takashi, uno dei preferiti del regista) si rifugiano sotto le rovine di Rashōmon, la porta d’ingresso meridionale della città di Kyōto, già all’epoca in rovina, e qui parlano del processo in cui sono stati testimoni. Il taglialegna inizia così a raccontare a un viandante anche lui sotto la porta per sfuggire alle intemperie: un famoso bandito, catturato per caso da una spia della polizia (e già qui le versioni della cattura della spia e del bandito sono diverse), sul corso del fiume Katsura, nella zona ovest di Kyoto, è accusato dell'omocidio di un samurai in un bosco vicino la città. Al processo a deporre ci sarà la spia che ha catturato il bandito, il taglialegna che descrive il modo in cui ha trovato il cadavere, il monaco che spiega il suo incontro con la coppia, e i tre, con le loro personali versioni: il bandito, la donna del samurai che viene posseduta dal bandito, forse stuprata, e il samurai ucciso (tramite la trance di una inquietante sciamana, una miko, in una delle scene più belle del film). Esse risultano essere tutte e tre profondamente differenti, e, paradossalmente, tutte tese ad attribuirsi la colpa della morte del samurai e a sminuire il ruolo degli altri (per inciso, anche l'anima del defunto mente, tesa com'è a costruire un ruolo di primo piano per sé, anche se ormai morto). L'interrogatorio è geniale: non vediamo chi interroga, né sentiamo le domande, perché nell'intenzione del regista è lo spettatore a interrogare (ma gli attori non fisseranno mai la telecamera). Da notare anche la particolare disposizione dei personaggi sullo sfondo. La verità non sarà svelata, e anche il nuovo racconto del taglialegna, che descrive una storia molto meno eroica di quella raccontata dai tre, non è molto convincente, sembra anzi un semplice riassunto delle versioni precedenti. La visione pessimistica dei rapporti tra le persone, tutti tesi alla propria esaltazione, è mitigata dalla bontà disinteressata del taglialegna che prenderà con sé un bambino abbandonato nei pressi della porta, dopo aver litigato con l'uomo che era con lui che senza alcuna remora, toglie le vesti preziose e l'amuleto di protezione del bambino.

Rashōmon è un film sulla natura umana, ma anche sull'impossibilità di trovare la verità, una posizione nichilista che per questo motivo non trova via d'uscita, avvicinando l'opera alle idee di Pirandello. Per la tematica, e per il modo in cui viene affrontata, è da considerare un classico del cinema, che trascende epoche e luoghi per affrontare, con raffinatezza, la problematica della verità sfuggevole e della malvagità dell'uomo.

Uscì nelle sale giapponesi nel 1950, ma riscosse un immediato successo solo all’estero, nel 1951, quando fu premiato al Festival di Venezia con il Leone d'oro. Il film concorse grazie all'interessamento di Giuliana Stramigioli, una pioniera degli studi giapponesi in Italia, che convinse i mal disposti dirigenti della casa di produzione Daiei ad inviare il film (Kurosawa rimase all'oscuro di tutto, e seppe dalla stampa della sua vittoria, in quanto non fu neppure invitato al festival), convinti che l'opera non fosse meritevole di rappresentare il cinema giapponese contemporaneo. Vinse, sempre nel 1951, addirittura l'Oscar come miglior film straniero, lanciando il suo regista verso la fama internazionale, e aprendo così le porte della cinematografia giapponese al mondo. Come per diverse opere del regista, fu accolto tiepidamente invece in patria, giungendo ad essere solo al quinto posto nella classifica dei migliori film dell'anno stilata dalla rivista Kinema Jumpo. Anche la casa di produzione non fu mai entusiasta del progetto e fu realizzato solo perché Kurosawa li convinse del basso budget, in realtà una mezza verità da parte del regista che chiese per il film pochi attori e solamente la costruzione della porta come set esterno, senza specificare le dimensioni colossali della stessa: “sarebbe stato meglio costruire 100 set, siamo stati giocati da Kurosawa”, si disse alla Taiei, che comunque costruì la porta al risparmio, e per questo la struttura fu così fragile da non permettere il completamento del tetto, creando, involontariamente, lo splendido effetto di distruzione.

Il film è giustamente famoso per le tecniche all’epoca innovative di ripresa (telecamera in mano che segue gli attori, e primo film in assoluto in cui la telecamera viene puntata direttamente contro il sole) e di illuminazione (utilizzo di specchi per ovviare alla carenza di luce nelle scene nella foresta, che così appare naturale), ma anche per la resa magistrale di una trama apparentemente semplice e per questo insidiosa. È breve, circa 88 minuti, e fa un massiccio uso del flashback, in pratica le varie versioni dei personaggi.

Grandissime le prove degli attori principali: Mifune è bellissimo con i suoi muscoli scattanti, e bravissimo nel ruolo del bandito selvaggio (le movenze sono ispirate a quelle di un leone, dietro suggerimento di Kurosawa, e studiate attraverso dei documentari) con la barba ispida. Machiko Kyō, la protagonista femminile, è notevole a passare dal ruolo di vittima a quella di istigatrice alla morte, con un viso particolare che riesce ad esprimere pura malvagità.

Per la trama, Kurosawa utilizzò fondamentalmente il materiale presente nel racconto di Akutagawa Ryūnosuke “yabu no naka”, del 1922, ma il film prese il nome da un altro racconto dello stesso autore, Rashōmon , appunto, del 1917, rielaborazione di un racconto antico che si svolge nell’omonima porta. La fusione tra i due racconti fu dovuta alla necessità del regista di rimpinguare lo scarno materiale offerto da Yabu non naka, arricchendolo con le suggestioni di Rashomon.

È probabilmente uno dei film giapponesi che più ha lasciato un'impronta nell'immaginario occidentale: ebbe un ottimo riscontro, e diede vita a vari rifacimenti, tra cui uno erotico in Italia nel 1969 (quante volte...quella notte, di Bava), mentre servì come trama per la bella canzone “le tre verità” di Mogol-Battisti. Anche in altri paesi ebbe vasta eco, tanto che le sue citazioni cinematografiche non si contano più, dal western del 1964, “L'oltraggio” (decisamente inferiore all'originale), penetrando a fondo nella cultura popolare. È, per esempio, del 1971, 20 anni dopo l'uscita in America (fine del '51), un episodio animato della serie “The Jacksons 5ive” intitolato “Rasho-Jackson”, dove i cinque fratelli raccontano lo stesso fatto esaltando ognuno il proprio ruolo, finché un filmato farà vedere che in realtà tutti hanno avuto lo stesso identico comportamento. La sua influenza, nonostante gli anni,  non si è esaurita, tanto che viene citato, in tempi più recenti, ma sono solo due esempi tra le decine possibili, nell'episodio 23 della serie X dei Simpsons (Margie: stiamo andando in Giappone, a te piace Rashomon! Homer: non è quello che ricordo...), mentre un episodio del 2006 della famosa serie CSI si chiama “Rashomama”(in italiano “la freccia di Cupido”), dove si ritrova il tema delle verità.


The Outrage





Quante volte



rashojackson


CSI


Le tre verità





Il vero nome della porta è Raseimon , che significa “la porta nelle mura di difesa”, mentre Rashōmon, scritto con caratteri diversi, è una lettura successiva ma divenuta più famosa, ed è quella usata nel film (ma i nomi alternativi sono numerosi). Possiamo quindi dire che il cartello con il nome della porta che viene inquadrato alla fine del film, contenente i caratteri “nuovi” è un falso storico. Dopo un periodo di splendore, a causa di diversi crolli dovuti alle intemperie, fu infine abbandonata, divenendo un simbolo di decadenza. C'era l'usanza di abbandonare i bambini indesiderati, mentre nel sottotetto venivano portati i cadaveri senza nome. Nonostante nel film la porta sembri essere nel mezzo del nulla, essa era il confine dell'antica città, e, probabilmente, nei dintorni dovevano esserci qualche abitazione.

L'onore in Giappone era molto importante, e i tentativi di suicidio nel film sono assolutamente plausibili, anche se per uno spettatore occidentale potrebbe sembrare esagerato.

L'abbandono di bambini in tempi antichi non era un fatto eccezionale, anche il famoso poeta Matsuo Bashō ne parla nei suoi haiku.

Il ruolo di medium con i morti era tradizionalmente affidato, nella religione shintō, alle sacerdotesse, miko.

La cinematografia chiama “effetto Rashomon” le situazioni in cui ci sono più verità a confronto.









Bibliografia:

youtube (è possibile reperire molti spezzoni e persino una versione integrale sottotitolata)

wikipedia (it-en-jp)

Aldo Tassone, “Akira Kurosawa”, Il castoro cinema, 2001 edizione speciale nel cofanetto de “I sette samurai” Mondo Home.